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L’attacco di Pearl Harbor, fra successo e fallimento

La mattina del 7 dicembre 1941 venne cambiato per sempre il corso del novecento. Dopo mesi di pianificazione ed addestramento da parte degli uomini della Marina Imperiale Giapponese, venne attuato uno degli attacchi aerei più celebri del secolo scorso. Il bombardamento della base statunitense di Pearl Harbor avrebbe dovuto distruggere la US Navy nell’oceano Pacifico per consentire alla Marina Imperiale di essere la padrona del mare, dall’Australia alla California.

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Il porto militare di Pearl Harbor venne utilizzato per ancorare la United States Pacific Fleet fin dal 1907, visto che l’installazione è protetta dall’omonima baia. Già dell’ottobre nel 1940 la US Navy presso le Hawaii venne potenziata in termini numerici, come reazione all’avanzata delle armate del Sol Levante in Asia. Questa scelta venne presa dal Presidente Franklin D. Roosevelt in persona, nonostante il parere contrario del comandante in campo della flotta Ammiraglio James O. Richardson che temeva di esporre la flotta ad un attacco nemico, lasciandole abbandonare il porto di San Diego; insieme all’embargo di materie prime questa mossa avrebbe dovuto rappresentare un deterrente contro ulteriori espansioni giapponesi.

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A differenza dell’Ammiraglio, gli altri vertici militari statunitensi ritenevano improbabile un attacco contro la base hawaiana, in quanto si sottovalutava il potenziale delle forze aeronavali giapponesi e si sopravvalutava l’apparto
difensivo dell’isola. Il giorno dell’attacco vi erano alla fonda 92 navi militari nella base di Pearl Harbor, mentre 163 caccia e 174 aerei di altro tipo erano schierati nei tre aeroporti dell’isola Hawaiana.

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Centro revisioni a Tradate

La pianificazione

PerlHarbour: un foografia scattata durante l bombardamento

L’operazione giapponese venne studiata a lungo dal miglior stratega aeronavale disponibile, l’Ammiraglio Isoroku Yamamoto. Yamamoto nella realizzazione di questo attacco si ispirò al raid inglese compiuto contro la Regia Marina nella baia di Taranto, che riuscì a colpire duramente la flotta italiana. La data dell’attacco venne scelta con particolare attenzione e venne influenzata dai rapporti dei agenti infiltrati alle Hawaii e dalle consuetudini adottate dagli americani. Innanzitutto bisognava attaccare prima della metà di dicembre per evitare che le operazioni anfibie, che l’esercito avrebbe dovuto condurre successivamente alla distruzione della flotta statunitense, avrebbero potuto essere ostacolate dall’avvento dei Monsoni nelle Filippine.

Uomini del Kaigun Tokubetsu Rikusentai

Il settimo giorno di dicembre venne scelto in quanto domenica e quindi molti marinai si sarebbero potuti trovare a terra, quindi lontani dai cannoni contraerei; inoltre per la sera fra il 7 e l’8 era prevista la luna nuova con la conseguente oscurità, che avrebbe aiutato il gruppo da battaglia delle portaerei a non essere avvistato. Le attività di spionaggio compiute da civili e militari giapponesi proseguirono fino all’attacco, tanto che il 6 dicembre i membri della forza di attacco vennero a conoscenza del fatto che che le tre portaerei americane non erano più in porto.

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 Anche se la USS Enterprise, USS Saratoga e USS Lexington dovevano essere il principale obiettivo dell’attacco aeronavale, si decise di colpire comunque la base. Questa scelta venne giustificata dal fatto che comunque in porto erano ancorate ben otto corazzate, un bersaglio assolutamente invitante. Dopo le corazzate, in ordine di importanza, vi erano i depositi di carburante, le installazioni portuali e gli aeroplani schierati all’aeroporto di Hickam. La mattina del 26 novembre la flotta giapponese salpò dalla baia di Hitokappu con destinazione Pearl Harbor.

La formazione navale d’attacco era forte di sei portaerei (Akagi, Hiryu, Soryu, Kaga, Zuikaku, Shokaku) scortate da due corazzate, due incrociatori pesanti (Chikuma e Tone), un incrociatore leggero (l’Abukuma) e nove cacciatorpedinieri; inoltre ventitré sommergibili che trainavano cinque sommergibili tascabili classe Ko-hyoteki ed otto petroliere militari seguivano le portaerei. Il governo giapponese studiò attentamente l’ordine di attacco, poiché la dichiarazione di guerra avrebbe dovuto essere consegnata dall’ambasciatore a Washington circa mezz’ora prima del raggiungimento degli obiettivi da parte della prima ondata di aerei.

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la scala Rho b&b

Questa decisione avrebbe dovuto costituire un compromesso fra il colpire conservando un certo effetto sorpresa ed il salvaguardare l’immagine dell’Impero agli occhi del mondo. L’intero gruppo da battaglia imperiale, dopo essersi radunato al largo dell’isola di Iturup, partì il 26 novembre alla volta delle Hawaii. Il 2 dicembre Tokyo inviò alla flotta un segnale in codice: «Scalate il monte Niitaka».
Queste parole significavano che le trattative volte a creare un accordo che avrebbe stabilizzato le relazioni fra il Giappone e gli Stati Uniti avevano avuto esito negativo; in questo momento il comandante della flotta, ammiraglio
Chuichi Nagumo, capì che avrebbe sferrato il primo colpo della guerra contro gli americani.

Scalate il monte Niitaka

pearl harbor. L'attacco di Pearl Harbor, fra successo e fallimento - 10/07/2015

Il gruppo da battaglia della Marina Imperiale Giapponese si stabilì 440 km a nord dell’isola di Oahu il 6 dicembre, dopo dodici giorni di navigazione. L’Operazione Z cominciò alle 05:00 del giorno successivo quando vennero svegliati i piloti e gli altri membri degli equipaggi che si prepararono per la missione. Fra questi i più legati alla tradizione scintoista indossarono le hachimaki, pregarono davanti a piccoli altari e brindarono bevendo il sake, il tradizionale vino di riso. A quella stessa ora tre idrovolanti (due Aichi E13A ed uno Yokosuka E14Y) vennero fatti alzare in volo da due incrociatori e da un sommergibile portaerei; questi tre aerei furono i primi velivoli giapponesi a sorvolare l’isola di Oahu per un ultima ricognizione prima dell’attacco. 

Alle ore 06:00 decollarono dalle quattro portaerei 183 aeroplani fra caccia, aerosiluranti e bombardieri in picchiata, al comando del Capitano di Fregata Mitsuo Fuchida, che costituivano la prima ondata di attacco. La formazione aerea giapponese volava con i bombardieri ed aerosiluranti Nakajima B5N a 9 000 ft (circa 3 000 m), i tuffatori Aichi D3A “Val” compresi in mezzo ed i caccia Mitsubishi A6M “Zero” sovrastavano l’intera formazione a 15 000 ft (circa 9 000 m). Alle ore 07:02 l’unica delle nove postazioni radar funzionanti sull’isola hawaiana captò le tracce degli aerei della prima ondata d’attacco; i due operatori contattarono il comando dell’USAAF tredici minuti dopo, che rispose loro di non preoccuparsi in quanto probabilmente si trattava dei nuovi bombardieri B-17 in volo di trasferimento.

Sfortunatamente, gli attaccanti giapponesi seguivano una rotta molto simile a quelle che avrebbero dovuto seguire i quadrimotori americani. Il Capitano Fuchida, in prossimità dell’isola di Oahu, utilizzò il segnale radio dell’emitente hawaiana KGMB come radiofaro per guidare l’intera formazione contro il porto militare; inoltre i bollettini meteo emessi dalla radio informarono il comandante della presenza di nubi ad est della baia ed allora decise come attaccare. 

La sua ondata sarebbe comparsa da ovest e dopo l’attacco avrebbe preso direzione sud-ovest per ritornare alle portaerei. Alle 07:30 la forza d’attacco era ormai giunta sopra l’isola di Oahu ed il Capitano di corvetta Fuchida decise di iniziare con l’attacco e lanciò poco dopo un fumogeno dal suo aeroplano, dando inizio all’attacco. I tuffatori cominciarono con la salita per portarsi a 12 000 ft (circa 8 000 m), al fine di sfruttare al massimo le capacità del bombardamento in picchiata, mentre bombardieri e aerosiluranti scesero intorno a 3 000 ft (circa 1 000 m).

Tuttavia i piloti dei caccia Zero, molto più un alto, non notarono il fumogeno e Fuchida dovette lanciarne un altro, facendo però erroneamente segno ai tuffatori di iniziare l’attacco in anticipo rispetto agli altri aerei. L’ordine di attacco via radio venne diffuso alle 07:49 dal comandante della formazione; il messaggio radio “Tora!…Tora!…Tora!…” divenne successivamente un celebre esempio di come modernità e tradizione vengono uniti dal popolo nipponico, in quanto Tora (tigre) è un riferimento ad un antico proverbio giapponese. 

Un primo gruppo di venticinque Val attaccarono la base aerea di Wheeler Field sganciando bombe da 250 kg contro le infrastrutture dell’aeroporto ed i caccia P-40 e P-36 schierati sul piazzale. Il secondo gruppo dei restati ventisei Val venne indirizzato contro la Ford Island Naval Air Station, una sezione aeronavale della base dove la US Navy ricoverava circa una trentina di idrovolanti PBY Catalina, e contro l’aeroporto militare di Hickam Field, in cui erano schierati i bombardieri della USAAF. Gli aerosiluranti cominciarono l’attacco alle 07:55 quando, dopo aver constatato l’assenza delle portaerei nemiche, si divisero in due gruppi per colpire le imbarcazioni ancorate ai due lati del Battleship Row.

La USS Oklahoma in fiamme

Questo soprannome – Battleship Row – venne dato dai militari statunitensi all’isola sita al centro della baia perché le imbarcazioni più grandi della flotta venivano ancorate proprio attorno all’isola. I primi 24 aerei arrivarono da ovest, mentre i restanti 16 Nakajima attaccarono da est. Il gruppo proveniente da est riuscì a lanciare ben sette siluri Type 91 da 784 kg in direzione delle imbarcazioni ancorate su quel lato dell’isola.

 Due siluri colpirono l’incrociatore USS Utah che affondò molto rapidamente mentre altri due siluri danneggiarono gli incrociatori leggeri USS Raleigh e USS Helena. Nello stesso tempo attaccarono anche gli altri 24 aerei da ovest, colpendo la corazzata USS West Virginia con sette siluri e con cinque la vecchia corazzata USS Oklahoma, che affondò anch’essa. Anche le corazzate USS Nevada e USS California vennero centrate complessivamente da tre siluri. Dopo gli aerosiluranti, fu il turno dei bombardieri colpire le restanti navi ancora intorno al Row. Altri 49 Nakajima B5N puntarono sulle imbarcazioni statunitensi: alcuni colpirono le corazzate USS Maryland, USS Tenesse, USS West Virginia e USS Arizona.

Proprio quest’ultima venne colpita, oltre che negli altri punti, nella santabarbara (il deposito del munizionamento della nave) di prora che esplodendo, spezzò la corazzata in due tronconi. La drammatica fine di questa unità della Marina statunitense decretò la maggior parte delle perdite da parte dei marinai americani: 1177 uomini morirono
soltanto a bordo di questa nave, fra cui il contrammiraglio Isaac Kidd. Il secondo gruppo d’attacco decollò alle ore 07:15 e giunse su Pearl Harbor un ora e quaranta minuti dopo. Nella formazione vi erano cinquantaquattro Nakajima B5N, settantotto Val e trentacinque Zero, tutti al comando del Capitano di corvetta Shighekazu Shimazaki.

Non vi fu una vera e propria differenza fra le due ondate poiché quando intervennero gli aerei di Shimazaki, i loro predecessori erano ancora in gran parte intenti nei loro scopi. A differenza della prima ondata non vi erano aerosiluranti fra gli aerei del secondo attacco, in quanto era stato programmato che questi aerei avrebbe dovuto bombardare ciò che sarebbe sopravvissuto alla prima ondata; difatti la maggior parte dei bombardieri e dei tuffatori si concentrarono sulle grandi navi precedentemente immobilizzate dai siluri. L’unica cosa che variò in maniera significativa fu la reazione del fuoco contraereo americano, che aumentò sia in termini di precisione che quantità.

Nonostante la presenza di un più consistente fuoco da terra, i bombardieri giapponesi riuscirono a mandare a segno la maggior parte delle bombe. La prima nave a subire il fuoco dalla seconda ondata fu l’incrociatore pesante USS New Orleans, che venne colpita alle 9:05 mentre si trovava in riparazione in uno dei bacini di carenaggio della base. Durante questo attacco vennero colpiti anche due cacciatorpediniere (USS Cassin e USS Downes) che si trovavano in secca nello stesso bacino della corazzata USS Pennsylvania. 

Tredici minuti dopo i tuffatori giapponesi colpirono l’incrociatore leggero USS Honolulu, ultima grande nave ad essere colpita. Alle ore 10:00 gli aerei della prima ondata rientrarono alle loro portaerei. Le autorità civili e militari hawaiane iniziarono a reagire e venne dichiarato lo stato di emergenza: alle ore 10:42 vennero spente tutte le stazioni radio per evitare che potessero guidare altri aeroplani nemici ed alle 12:30 polizia ed FBI fecero irruzione nell’ambasciata giapponese, trovando soltanto documento ormai distrutti ed ancora fumanti nei cestini. Alle 13:30 anche i restanti aerei giapponesi rientrarono verso le portaerei. Soltanto alle 16:30 venne ordinato all’intero gruppo da battaglia di rientrare verso il Giappone.

La risposta yankee

il sottotenente George Whiteman, primo pilota americano a cadere durante la Seconda Guerra Mondiale

Anche i piloti della USAAF cercarono di reagire all’attacco giapponese: tempo dell’arrivo della seconda ondata d’attacco giapponese, gli specialisti statunitensi riuscirono a preparare tre caccia Curtiss P-40 al decollo dall’aeroporto militare di Bellows Field. Soltanto due di questi aeroplani riuscirono ad alzarsi in volo, ma vennero subito abbattuti da un caccia Zero; dei due piloti statunitensi rimase ucciso il sottotenente George Whiteman, primo pilota americano a cadere durante la Seconda Guerra Mondiale. Nonostante il cielo fosse controllato dai caccia giapponesi, attorno alle 8:30 altri due caccia P-40 riuscirono a decollare da un aeroporto minore dell’isola.

Ai comandi dei due sottotenenti George Welch e Kenneth Taylor questi due caccia ottennero gli unici abbattimenti statunitensi della giornata, reclamando rispettivamente quattro e due vittorie. Dopo essere atterrati per il rifornimento di carburante e munizioni, i due sottotenenti ridecollarono nuovamente alle 9:00 e rimasero coinvolti nei combattimenti contro la seconda ondata giapponese. In totale, circa nove caccia fra P-36 e P-40 riuscito ad alzarsi in volo per cercare di intercettare gli aerei nemici.

Conclusione

Gli attaccanti giapponesi persero complessivamente 64 uomini, tutti i 5 sommergibili tascabili e 29 aerei. Le unità subacque giapponesi vennero tutte distrutte in un maldestro tentativo di entrare nella baia poco prima dell’attacco aereo. Gli statunitensi contarono 2 402 caduti fra marinai, Marines, uomini dell’esercito e civili, 1 178 feriti più o meno gravi, 161 aerei vennero distrutti, 8 navi vennero affondate e quasi tutte le altre danneggiate. Complessivamente l’attacco aeronavale giapponese può essere considerato un infruttuoso successo.

 Gli uomini della Marina Imperiale riuscirono ad infliggere un efficace attacco a sorpresa contro quella che avrebbe dovuto essere l’istallazione militare statunitense più all’erta e pronta ad entrare nel conflitto. Tuttavia questa grande occasione di dotarsi di un avamposto così ad oriente non venne colta dai giapponesi che non occuparono l’isola di Oahu. Un eventuale assalto viotrasportato e/o anfibio da parte delle forze speciali della Marina Imperiale (come l’unità Kaigun Tokubetsu Rikusentai) avrebbe permesso al Sol Levante di poter mettere le mani sulle riserve petrolifere statunitensi sull’isola, risorsa che i giapponesi fecero sempre fatica a reperire durante il conflitto. 

L’aver danneggiato pesantemente la flotta statunitense diede ai giapponesi un vantaggio solo temporaneo sugli americani, ma quando questi riuscirono ad allestire una flotta che riuscisse a tenere testa a quella nemica, il Giappone si avviò verso la sconfitta. L’attacco compiuto a sorpresa diede grande scalpore negli Stati Uniti e all’opinione pubblica statunitense si unì compatta contro il Giappone.

A prova di questo sentimento ci sono le parole dell’ammiraglio statunitense William Halsey, comandante della portaerei USS Enterprise. La sua unità si salvò dall’attacco giapponese in quanto quel giorno era diretta verso l’isola di Wake per consegnare alcuni aerei alla guarnigione dei Marines lì installata. Quando venne contattato via radio per comunicargli del tragico attacco e per metterlo in guardia contro la presenza del gruppo da battaglia giapponese, punito pronunciò la celebre frase: « Non la faremo finita con loro, finché il giapponese non sarà parlato solo all’inferno».

Il presidente statunitense Franklin Roosevelt proclamò il celebre discorso cheportò gli Stati Uniti ad entrare in guerra contro il Giappone ed i suoi alleati; sempre questo discorso marchiò il 7 di dicembre come giorno dell’infamia. Un ultima conseguenza seguì l’attacco a Pear Harbor: l’ordine esecutivo 9066 firmato dal Presidente causò l’internamento di 650 mila fra cittadini giapponesi oppure di origine edochiana in campi di prigionia appositamente allestiti pochi mesi dopo l’entrata in guerra del paese.

Nota della redazione
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Cristopher Venegoni

Sono nato e cresciuto tra Arluno e Ossona e studio giurisprudenza. la mia passione sono gli aerei e il volo, per questo sono guida volontaria al Museo di Volandia, Varese.

Un pensiero su “L’attacco di Pearl Harbor, fra successo e fallimento

  • Opinione Personale: Fu un azione sbagliatissima. Il Giappone avrebbe dovuto attaccare gli inglesi. Sicuramente gli Usa sarebbero col tempo entrati in guerra a sostegno della loro alleata; ma solo dopo un lacerante dibattito interno, che avrebbe consentito nel frattempo ai nipponici di infliggere pesanti danni ai britannici, e, senza l’indignazione per il giorno dell’infamia, sarebbe sempre stata attiva negli Usa una corrente pacifista che avrebbe potuto portare a una soluzione di compromesso.

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